Sentenza n. 192 del 1983

 CONSULTA ONLINE 


SENTENZA N. 192

ANNO 1983

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

          Dott. Arnaldo MACCARONE

          Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO,

          ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369 (Divieto di intermediazione, ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell'impiego di manodopera negli appalti di opere e di servizi), 414, n. 4, cod. proc. civ. (controversie individuali di lavoro - forma della domanda) e 2697 cod. civ. (onere della prova) promosso con ordinanza emessa il 17 ottobre 1978 dal Pretore di Torino nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Astore Albino ed altro e Policheni Vincenzo ed altro, iscritta al n. 649 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 59 del 1979.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 27 aprile 1983 il Giudice relatore Brunetto Bucciarelli Ducci.

Ritenuto in fatto

Il Pretore di Torino con ordinanza del 17 ottobre 1978 (r.o. n. 649/1978) ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, cpv., e 24, primo e secondo comma, della Costituzione, del combinato disposto degli artt. 1 legge 23 ottobre 1960, n. 1369, 414, n. 4 c.p.c. e 2697 cod. civ. nella parte in cui non prevedono per il lavoratore, che agisce in giudizio per la dichiarazione di interposizione di mano d'opera, una deroga al principio generale dell'onere dell'allegazione dei fatti e della prova dei medesimi.

Assume il giudice a quo che tale onere impedirebbe la tutela giurisdizionale di un diritto del lavoratore, considerata la difficoltà per quest'ultimo di conoscere fatti a lui estranei, in quanto inerenti in pratica ai rapporti tra il suo datore di lavoro ed il committente.

É intervenuto in giudizio con atto 14 marzo 1979 il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione proposta. Se infatti - argomenta l'Avvocatura dello Stato - si può convenire che in simili casi l'assolvimento da parte dell'attore dell'onere della prova presenti notevoli difficoltà, non può vedersi tuttavia in tale prescrizione un ostacolo assoluto alla tutela giurisdizionale del diritto del lavoratore, tanto che la prova può essere offerta con tutti i mezzi previsti dalla legge, comprese le presunzioni, e che al giudice sono concessi ampi poteri istruttori (art. 421 c.p.c.).

Considerato in diritto

Il giudice a quo in sostanza lamenta che la normativa non abbia previsto - nell'ipotesi in cui il prestatore di lavoro agisca in giudizio per far dichiarare, ai sensi dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, l'esistenza di una interposizione di mano d'opera - un'eccezione al principio generale sull'onere della prova posto dall'art. 2697 c.c. ed applicato in materia di lavoro dall'art. 414 c.p.c., novellato dalla legge n. 533 del 1973, il quale ultimo impone all'attore, fin dal momento della proposizione del ricorso, di esporre i fatti che sono a fondamento della domanda e di indicarne specificamente i mezzi di prova (nn. 4 e 5 della norma citata).

La mancata previsione di tale eccezione - secondo l'ordinanza di rimessione - porrebbe il lavoratore in una situazione di inferiorità rispetto al suo datore di lavoro, violando il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e impedendogli di azionare un proprio diritto (art. 24 Cost., primo e secondo comma).

La questione non é fondata.

L'art. 1 della legge 23 ottobre 1960 n. 1369, sulla traccia dell'art. 2127 c.c., che sancisce il divieto di interposizione nel lavoro a cottimo, pone a disposizione del lavoratore un'azione intesa a modificare il rapporto di lavoro sostituendo al datore di lavoro originario colui che dà vita all'interposizione; azione che, rientrando nella categoria generale delle azioni costitutive disciplinate nell'art. 2908 c.c., non può - in base al principio "actore non probante reus absolvitur" - non gravare il lavoratore attore dell'onere della prova.

Pertanto il porre a carico del datore di lavoro originario - come si richiede nella ordinanza di rimessione - l'onere della prova dell'inesistenza dell'interposizione sgravando il lavoratore attore dell'onere di provare l'esistenza dei fatti di interposizione, lungi dal collocare la specie nella regola generale, suonerebbe eccezione ad essa: eccezione che non é giustificata dalla difficoltà in cui verrebbe a trovarsi il lavoratore nel fornire la prova di fatti estranei alle sue conoscenze tanto più perché il novellato art. 421 c.p.c. munisce il giudice del lavoro - competente a conoscere la domanda de quo - di ampi poteri istruttori.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1 legge 23 ottobre 1960, n. 1369, 414, n. 4, cod. proc. civ. e 2697 cod. civ., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione con l'ordinanza del Pretore di Torino indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 1983.

Leopoldo ELIA – Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE – Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI -  Livio PALADIN – Arnaldo MACCARONE -  Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO – Ettore GALLO

Giovanni VITALE - Cancelliere

          Depositata in cancelleria il 29 giugno 1983.